La nostra Repubblica celebra oggi un anniversario importante.
Come si sa “res publica” indica la cosa comune. Indica ciò che tutti noi italiani abbiamo in comune. La retorica qualche volta offende, nella inutile enfasi, questa categoria storica e impedisce di avvertirne il significato autentico che contiene. Impedisce di comprendere che avere qualcosa in comune non è semplice e non è scontato. Sono più numerose di quello che pensiamo le realtà umane che hanno conseguito nulla o poco di comune, che non sono diventate quindi singolarità storiche, con una lingua e costumi condivisi.
I popoli nascono nel tempo di una pazienza infinita. Trascorrono generazioni prima che la cosa in comune divenga un certo carattere, una tipica antropologia, un idioma linguistico, un paesaggio esteriore ed interiore, una religione o varie forme di liturgie e di culti civili. Qualche volta tutto questo accade per semplice contatto e pressione delle differenze, altre volte intervengono fenomeni di rottura e persino di scontro o di guerra. In ogni caso non è mai scontato che un popolo nasca e si affermi nel corso del tempo. Ancora meno scontato è che la singolarità di un popolo trovi una terra e uno spazio storico geografico in cui insediarsi e vivere in una sua indipendenza.
Sono innumerevoli i casi di popoli senza terra, quasi sempre scacciati e sconfitti, oppure vittime sacrificali di grandi potenze. Sono popoli migranti oppure sono popoli che vivono nel ventre di altri popoli, al loro margine periferico, qualche volta appena tollerati nella differenza che esprimono.
Qualche volta i popoli hanno una terra ben delimitata nei confini e tuttavia non hanno sviluppato, per molti complicati motivi, un’organizzazione istituzionale e politica. Il territorio diventa semplicemente il campo di una guerra civile permanente, di scorrimento di bande armate che si combattono per una supremazia qualche volta al soldo di interessi militari ed economici più grandi e influenti.
Dovremmo ricordare almeno tutte queste cose quando festeggiamo la nostra res pubblica.
Dovremmo ricordare il travaglio storico da cui proviene L’Italia. Siamo stati per generazioni un popolo senza unità territoriale e senza unità statale. Lo stesso sistema istituzionale dopo ben oltre un secolo non si è sviluppato in modo maturo e completo come invece è accaduto in altri paesi europei. Non siamo cresciuti purtroppo a creare un ethos popolare e un sentimento di nazione.
La nostra unità politico statale è sempre stata fragile, quasi esteriore, non da tutti accettata come casa comune, intere parti del Paese si sono sentite ospiti più o meno graditi di altre parti che hanno esercitato egemonie repressive e il più delle volte veri e proprio disegni di sottomissione. Le divisioni territoriali, economiche e sociali sono state più volte sul punto di spezzare l’unità nazionale. Prima della Repubblica le lotte sociali potevano essere così cruente da mettere in discussione l’unità civile, fino alla guerra interna, fino al limite della guerra tra italiani. Il nostro è il solo tra i Paesi europei in cui la lotta politica può assumere il rango di una lotta tra nemici implacabili. L’unica democrazia matura in cui lo scontro politico può trovarsi a un passo dall’odio e dalla rottura insanabile. Siamo ancora il Paese in cui l’adesione al gruppo, al partiti, al clan o alla famiglia assume un valore di riferimento a scapito dell’interesse generale. La grande stampa non fa mancare il suo apporto in questa drammatizzazione permanente dello scontro politico e dell’odio civile. Anche perché molto spesso si fa carico di interessi di gruppi di pressione, di potentati economici che ritengono di trovare terreno più fertile per le proprie richieste in un mondo politico debole e diroccato, sempre sul punto del collasso istituzionale.
La vera sfida per l’Italia è fuoriuscire da questa logica partigiana.
Le forze politiche devono riconoscersi a vicenda non come espressioni di partiti, ma come espressione della Repubblica. Nessun interesse anche particolare è davvero legittimo se non concorre in vario modo a realizzare i valori costituzionali. L’idea che i programmi possano essere, come a volte si dice alternativi, radicalmente alternativi, in realtà non può che violare il patto costituzionale. La competizione e anche l’agonismo non possono che esprimersi su proposte diverse, rappresentare interessi anche divergenti e tuttavia in una repubblica in buona salute, in una repubblica che si fonda sui valori costituzionali gli elementi condivisi saranno considerevolmente superiori agli elementi di divisione. Dovrebbe essere considerato naturale, espressione della giusta tensione democratica, il fatto che i programmi dei partiti contengano numerosi denominatori comuni. E’ proprio in questi denominatori che essi possono esprimersi come attori importanti della storia repubblicana. La competizione e anche l’agonismo deve manifestarsi più che sui programmi sulla qualità della classe dirigente, sulla serietà, la competenza, l’onestà, la dedizione. Il medesimo programma o un programma simile può cambiare in relazione alla qualità del ceto politico che lo interpreta e cerca di tradurlo concretamente . Insomma è su questo piano che dovremmo inaugurare davvero un salto di qualità della storia della nostra repubblica.
Il 2 giugno deve essere un momento per riflettere su quale debba essere il futuro dell’Italia, se possa divenire nazione, magari, dentro un modello europeo differente.
Guardando al futuro dell’Italia, la nota lieta e positiva che oggi abbiamo è la presenza della grande
personalità di Mario Draghi per la sua competenza e l’alto livello di statualità. Un uomo di stato capace di rappresentare bene gli interessi dell’Italia in Europa. Con Draghi una nuova pagina della nostra Repubblica potrebbe aprirsi purché i partiti che abbiamo cessino di svolgere il ruolo di un antagonismo minaccioso e offensivo. Non si tratta di ridurre tutto a un banale compromesso verso il ribasso ma verificare l’essenza stessa dell’intelligenza politica e cioè la capacità di trovare raccordi, nuovi equilibri, giuste e sagge decisioni che valorizzino le proposte di tutti.
Giugno, 2021
Gianfranco Meazza