Sulla questione della Autonomia differenziata

Il 26 giugno 2024 è stata pubblicata la legge sulla autonomia differenziata.

La legge intende dare attuazione alla autonomia delle Regioni a Statuto ordinario secondo quanto previsto dall’art. 116, comma 3 della Costituzione.

Il tema nevralgico che coinvolge l’assetto istituzionale dell’Italia merita un’analisi.

Si leggono molteplici notizie sulla vicenda, in gran parte frammentarie, che non aiutano a capire il senso di questa legge.

Andiamo con ordine e cerchiamo di fornire un quadro oggettivo.

La legge del 24 giugno 2024 n° 3 non è altro che la conseguenza di una scelta intrapresa  23 anni fa, esattamente quando è stata approvata a maggioranza assoluta (allora) dal Governo di centro sinistra  di entrambi i rami del Parlamento la Legge Costituzionale del 18 ottobre  2001, con cui  è stata attuata la riforma del titolo V della Costituzione.

Elemento centrale della riforma del Titolo V della Costituzione è stato quello di ridurre la potestà legislativa del Parlamento in favore della devoluzione della potestà legislativa alle Regioni.

Il nostro sistema costituzionale nasce come  Stato unitario e accentrato. Sino  al 2001 le Regioni potevano intervenire in specifiche materie, per esemplificare: in tema di ordinamento degli enti amministrativi regionali, di polizia locale, fiere e mercati, circoscrizioni comunali, assistenza sanitaria, istruzione artigiana e professionale, urbanistica, agricoltura e foreste, artigianato, ma il potere era limitato solo «nei limiti dei principi stabiliti dalle leggi dello Stato» e senza entrare «in contrasto con l’interesse nazionale e con quello di altre Regioni». (vecchio art. 117 Cost.).  Nella visione iniziale lo Stato doveva essere considerato unitario e le Regioni dovevano essere  Enti dotati di autonomia legislativa specifica in relazione ad alcune materie perché potessero interpretare meglio le singole realtà territoriali ma dentro  un unitario quadro  normativo.

Con la Riforma del 2001 si capovolge la struttura istituzionale dei rapporti tra Stato centrale,  Regioni e i Comuni.

Lo Stato inteso come Ordinamento complessivo viene (ri)disegnato, non è più l’unico referente e diviene solo parte dell’Ordinamento insieme a Regioni, Province e Comuni tutti posti paritariamente con dignità istituzionale: la Repubblica si riparte in Regioni, Province e Comuni”.

Evidente l’enorme differenza.

Laddove prima i nostri Padri della Costituzione avevano visto (bene) che fosse lo Stato il perno centrale su cui dovevano ruotare le istanze dei cittadini e agli Enti locali dovevano essere demandate alcune specifiche funzioni amministrative, dopo, con la riforma del 2001, il rapporto “Stato” centrale e Enti locali si capovolge.

Un capovolgimento peraltro in aperta contraddizione con quanto previsto dall’art 5 che è tra i principi fondamentali della nostra Carta per cui lo Stato deve rimanere unitario “la Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi e i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento”.

Prima lo Stato coincideva con la Repubblica. Ora lo Stato e Regioni divengono, entrambi, titolari di potestà legislativa. Alle Regioni vengono riconosciuti autonomi poteri e funzioni, ad esse competono tutte le materie non espressamente riservate alla potestà legislativa statale: “la Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato. I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni sono enti autonomi con propri statutipoteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione”.

La riforma del 2001 fa saltare la ratio storica che aveva determinato la nascita delle cinque Regioni a Statuto speciale, le quali nascevano per ragioni profonde, storiche, sociali ed economiche.

L’ epilogo di questa riforma infelice è stato che le regioni vengono messe sullo stesso piano in quanto viene previsto che quelle a statuto ordinario  possano richiedere la devoluzione  di una variegata quantità di materie in precedenza devolute alla competenza dello Stato. Tra l’altro possono farlo con una procedura più semplice rispetto alle Regioni a Statuto speciale (!). Esse possono beneficiare di forme e condizioni particolari di autonomia per tutte le materie non espressamente previste di competenza esclusiva dello Stato. Si tratta di un elenco ricco e variegato perché alle materie di competenza esclusiva delle regioni si aggiungono quelle di competenza concorrente:

“ (1) [I] Il Friuli-Venezia Giulia, la Sardegna, la Sicilia, il Trentino-Alto Adige/Südtirol e la Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste dispongono di forme e condizioni particolari di autonomia, secondo i rispettivi statuti speciali adottati con legge costituzionale.

[II] La Regione Trentino-Alto Adige/Südtirol è costituita dalle Province autonome di Trento e di Bolzano.

[III] Ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, concernenti le materie di cui al terzo comma dell’art 117  e le materie indicate dal secondo comma del medesimo articolo alle lettere l), limitatamente all’organizzazione della giustizia di pace, n) e s), possono essere attribuite ad altre Regioni, con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei princìpi di cui all’art. 119. La legge è approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di intesa fra lo Stato e la Regione interessata”. (art. 117 Cost.).

Tradotto in concreto, il capovolgimento istituzionale ha comportato che materie come quelle della istruzione e la formazione professionale, commercio anche con l’estero, industria, turismo, artigianato, agricoltura, assistenza sociale, sanità, porti e aeroporti civili, grandi reti di trasporto e di navigazione, ordinamento della comunicazione, produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia, armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario, sono devolute ai poteri esclusivi e/o concorrenti delle regioni.  Anche per quanto concerne la potestà regolamentare, lo Stato centrale assume competenza esclusiva nelle materie di propria competenza legislativa esclusiva (salva delega alle regioni in queste stesse materie). Nelle materie di legislazione concorrente la potestà̀ regolamentare è riservata in via esclusiva alle regioni in virtù del 6° comma dell’articolo 117.

E’ facile intuire come questa visione di cessione di poteri, a fronte di un paese già storicamente fragile e diviso sul piano sociale ed economico conduca all’indebolimento dello “Stato unitario”. 

Peraltro la riforma del 2001 necessitava di una serie di interventi e correttivi istituzionali per neutralizzare le conseguenze nefaste che altrimenti sarebbero conseguite a seguito dello stravolgimento istituzionale.

Il modello concreto che ne scaturisce è la previsione di competenze diversificate  tra regioni perché ogni regione può decidere di richiedere la devoluzione di questa o quella materia, ognuna tenderà a posizionarsi verso richieste specifiche per soddisfare interessi particolari della propria area territoriale.  L’epilogo infelice sarà il caos,  la moltiplicazione e il frazionamento delle materie tante quante sono le regioni e la probabile incompatibilità che si ingenererà con le politiche strategiche nazionali su temi nevralgici. I conflitti tra Stato e regioni e le numerose cause avanti la Corte Costituzionale sono sintomatiche della difficoltà di questa convivenza tra poteri.

 La conseguenza è il venir meno dell’interesse dello Stato nazionale inteso come Repubblica “una e indivisibile” prevista invece come caposaldo dall’art. 5 della Cost. Si è disegnato un impianto ove l’interesse “statale” fa capo a singole regioni intese come autonomi “staterelli”, elevate a elemento costitutivo nella nuova visione di Stato. Per l’effetto anche l’ambito e il contenuto dei principi fondamentali vengono messi in discussione sulla scorta della Legge costituzionale del 2021 e del nuovo assetto che si è inteso assumere.

Arriviamo dunque alla legge del giugno del 2024, composta da 11 articoli, la quale non è altro che la semplice fissazione del percorso procedimentale volto all’attuazione di quanto già previsto nel 2001. Detta legge disciplina il modo, le forme e le condizioni della attuazione della nuova autonomia, concernenti le materie di competenza delle regioni a statuto ordinario come ridelineate nell’art. 117 Cost. Niente di nuovo quindi rispetto a quanto pensato nel 2001. E’ una autonomia che si attua tramite “intese” o negoziazioni con lo Stato centrale che è il “partner” delle regioni.  

L’intesa scaturisce da una richiesta della regione interessata, sentiti gli enti locali, secondo le modalità previste nell’ambito della propria autonomia statutaria. L’iniziativa di ciascuna regione può riguardare la richiesta di autonomia in una o più materie o ambiti di materie e le relative funzioni. Si sviluppa quindi un negoziato tra il Governo e la regione per la definizione di uno schema di intesa preliminare. Una volta raggiunta l’intesa preliminare viene trasmessa alla Conferenza unificata delle regioni per un parere, semplicemente facoltativo ( quindi inutiliter data) e dopo il parere espresso entro 60 gg l’intesa è inviata “alle Camere per l’esame da parte dei competenti organi parlamentari, che si esprimono con atti di indirizzo, secondo i rispettivi regolamenti, entro novanta giorni dalla data di trasmissione dello schema di intesa preliminare, udito il Presidente della Giunta regionale interessata”.

Dopo di che, alla luce del parere e degli atti di indirizzo, e fermo restando lo sviluppo o la modifica del contenuto del negoziato, il Presidente del Consiglio o il Ministro predispongono lo schema di intesa definitivo. Il Presidente del Consiglio dei ministri, che potrebbe non conformarsi in tutto o in parte agli atti di indirizzo, riferisce alle Camere con apposita relazione.

E’ il Presidente del Consiglio dei ministri o il Ministro per gli affari regionali e le autonomie a predisporre lo schema definitivo di intesa una volta concluso il negoziato, il quale è trasmesso alla Regione interessata, che lo approva secondo le modalità e le forme stabilite nell’ambito della propria autonomia statutaria, assicurando la consultazione degli enti locali. Segue poi la deliberazione del Consiglio dei Ministri di approvazione del disegno di legge e dello schema definitivo  alla cui seduta  partecipa il Presidente della Giunta regionale interessata. L’intesa definitiva, dopo l’approvazione del Consiglio dei ministri, è immediatamente sottoscritta dal Presidente del Consiglio dei ministri e dal Presidente della Giunta regionale.

Il disegno di legge è immediatamente trasmesso alle Camere per la deliberazione, ai sensi dell’art 116 3° comma Cost. “La legge è approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di intesa fra lo Stato e la Regione interessata”.

L’intesa indica la propria durata che non deve superare i dieci anni, può essere modificata e sono anche previsti  i casi, i tempi e le modalità con cui lo Stato o la Regione possono chiedere la cessazione della sua efficacia.

Quanto sopra, come detto,  è segnato dal percorso della legge costituzionale  del 2001 e, al momento, appare arduo sollevare problemi di legitimità salvo una rivisitazione complessiva degli assetti istituzionali  tramite una modifica della  Costituzione e della stessa Legge costituzionale del 2001.

Rimane un elemento fondante alla base dell’attuazione dell’autonomia differenziata di cui  alla citata legge del giugno 2024.

Le forme e le condizioni particolari di autonomia da svilupparsi tramite i negoziati sono state espressamente subordinate alla previa determinazione dei relativi livelli essenziali delle prestazioni.  All’art. 3 è previsto preliminarmente la necessità di individuare i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, i c.d. LEP, che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale (Garanzia elevata a rango costituzionale ai sensi dell’art. 117 comma 2 lett. m). Al riguardo il Governo è delegato ad adottare, entro due anni dalla data di entrata in vigore della legge, uno o più decreti legislativi, sulla base dei principi e criteri direttivi stabiliti dalla legge di bilancio 2023. La cosa appare, per questa Italia, velleitaria tenuto conto del termine biennale e che ci sono voluti 23 anni per dare attuazione alla riforma del 2001.

Inoltre all’art. 9 viene specificato un importante punto, per il quale non può essere intaccato il principio dell’invarianza finanziaria per le singole Regioni che non siano parte delle intese approvate. I negoziati  di ciascuna regione non possono pregiudicare l’entità e la proporzionalità delle risorse da destinare alle altre Regioni, anche in relazione ad eventuali maggiori risorse destinate all’attuazione dei livelli essenziali delle prestazioni. Deve essere comunque garantita la perequazione per i territori con minore capacità fiscale per abitante. Ciò significa che non si può violare il principio dell’invarianza finanziaria.

Preme anche rilevare che  per le materie sottoposte all’osservanza degli standard di livelli essenziali di prestazioni  come  per esempio sanità, assistenza, istruzione, trasporto locale, le regioni non potranno avanzare richieste di maggiore autonomia  se prima non siano stati definiti gli standard minimi uguali per tutte le regioni italiane. Ne deriva che la richiesta di maggiore autonomia (le Regioni a Statuto speciale come la Sardegna sono già dotate di autonomia con fiscalità autonoma) non potrà violare le proporzioni di quote finanziarie tra regioni, nè incidere sul livello di erogazione di beni e prestazioni essenziali. Si dovrà garantire la presenza di un fondo perequativo in grado di compensare la differenza fra fabbisogno e capacità fiscale delle Regioni. La Regione che non avanza maggiore autonomia avrà diritto allo stesso finanziamento idoneo per garantire la stessa performance di prestazione sui livelli essenziali con particolare riferimento alla sanità, assistenza, istruzione, trasporto locale e alle materie oggetto della devoluzione.

Come può constatarsi, la legge indica un percorso ma non sarà di facile attuazione e rischia di accentuare  lo scollamento del tessuto sociale italiano, di accentuare il  caos istituzionale e la divisione tra territori, le difficoltà procedurali, la doppia patologia della burocrazia nazionale e comunitaria di cui l’Italia è già afflitta, oltre al problema del limite della spesa pubblica e del rapporto di dipendenza istituzionale  con l’Unione Europea. 

E’ una riforma che presenta diversi limiti e rischi di indebolimento dell’intero impianto istituzionale. Occorrerà prima individuare i livelli essenziali delle prestazioni, misurare prestazione e costi, i fabbisogni per ogni singolo territorio, calcolare l’ammontare delle risorse e poi fornire a tutte le regioni le dotazioni finanziarie, garantendo standard omogenei senza pregiudicare la sostenibilità economica posto che deve essere rispettato il principio dell’invarianza finanziaria. “Dall’applicazione della presente legge e di ciascuna intesa non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”. ( art. 9).

Quest’ultimo punto è dirimente, come sia possibile trovare le risorse e trovare un accordo sui livelli essenziali delle prestazioni senza intaccare la spesa pubblica va ancora spiegato.

Resta infine sullo sfondo la questione basilare. Ovvero l’ assenza di una visione prospettica di unità nazionale ove tutti si sentano coinvolti in un destino comune. Emerge invece una visione regionalistica limitata volta a far competere le regioni tra loro ingenerando tensioni e incomprensioni nel soddisfacimento di esigenze particolaristiche.

Sarà inevitabile una ulteriore proliferazione normativa, perché ogni regione potrà dotarsi di proprie leggi su materie differenti (da regione a regione), mentre sarebbe stato più lungimirante guardare ad una riforma istituzionale complessiva e sistematica, guardare ad una diversa ripartizione di territori, di competenze e poteri tra stato e regioni.  Si pensi solo alla materia della produzione energetica, dell’ambiente, dell’industria o del commercio con l’estero, che non può essere conferita alla sfera regionale. Meglio sarebbe stato cercare una riforma di più ampio respiro, correggendo i limiti della riforma del 2001 e guardare ad un diverso federalismo, ma in un ottica di rafforzamento dello Stato unitario, in grado di affrontare problemi di interesse sovranazionale e far fronte alle sfide future in rapporto relazionale sia  all’Unione Europea sia agli altri Stati

Sassari, agosto 2024

Avv. Gianfranco Meazza

Presidente Associazione Identità e Costituzione ets